Donne che sognarono cavalli – recensione teatrale
Non proprio la storia di una famiglia come altre
Cosa può scuotere le fondamenta di una famiglia? Un intricato sistema di eccessi irrisolti, verità sottaciute e menzogne che si intessono in un disequilibrio a cui, nonostante tutto, ognuno si aggrappa. È in questo mondo che ci porta Roberto Rustioni nello spettacolo ”Donne che sognarono cavalli” mettendo in scena una drammaturgia dell’argentino Daniel Veronese in cui humor e drammaticità si alternano a ritmo incalzante.
Vediamoci per pranzo
Lo spazio, dentro e fuori
Tutto accade intorno a un tavolo. E i pochi metri quadri della scena creano un’atmosfera in cui a mancare non è solo l’aria, ma anche lo spazio stesso per sviluppare davvero quelle relazioni. Pareti ricoperte da fogli di giornale ingialliti, una poltrona i cui rattoppi sono nascosti da un telo troppo piccolo, tende di plastica da cui i personaggi vanno e vengono con la frequenza delle loro nevrosi. Ogni dettaglio è esemplificazione di rapporti marci fin dalla base, esacerbati da una violenza che parte da lontano ma si rivela condivisa.
Sognare i cavalli: la fuga
Ci si può domandare cosa c’entrino i cavalli. Ma i cavalli corrono per tutta la durata dello spettacolo, proprio accanto a ciò cui assistiamo. Appaiono nelle fantasie delle tre donne, ognuna con una femminilità propria: Lucera (Valeria Angelozzi), visionaria e lacerata da ricordi che non ci sono, la provocatrice e senza freni Ulrika (Michela Atzeni) e la protettiva e indulgente Bettina (Maria Pilar Perez Aspa). E si incarnano nelle differenti personalità dei tre fratelli, Ivan, Rainer e Roger (Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo e Valentino Mannias) tra cui prevalgono i non detti e le zone d’ombra invece di un affetto e una conoscenza sinceri. I cavalli diventano simbolo di una fuga senza ritorno: da quello spazio asfissiante, da una storia di violenze da cui non possono che scaturirne altre, e persino da se stessi.
La convinzione dell’interpretazione
Lo è per la capacità degli attori di trasmettere l’ambiguità di personaggi che costruiscono e distruggono, l’emotività torbida delle loro relazioni, la similitudine tra un macro e un microcosmo in cui non c’è azione, dialogo o monologo che possa chiarire fino in fondo la realtà dei fatti. Ma l’obiettivo non è capire, proiettati come siamo in un racconto inquietante che ci spiazza anche per la sua struttura atipica e non cronologica. E la regia di Rustioni coglie nel segno, esplorando l’oscurità dell’animo umano con un approccio quasi cinematografico che concretizza il desiderio dell’autore: “mi interessa di più commuovere lo spettatore che spiegargli qualcosa”.
Un esperimento riuscito, che anche dopo gli applausi continua a elaborarsi nella mente di chi ci si fa condurre dentro.
Dove:
Teatro Elfo Puccini
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!